Primo maggio: oggi vi ringrazieranno ma rimarrete invisibili, sfruttati e sfruttate.
In Inghilterra, secondo i dati riportati dal Guardian, le persone BAME, ossia, “Black, Asian, and minority ethnic”, sono quelle che più di tutte vengono colpite dal Covid-19, in quanto impiegate principalmente nei posti di lavoro essenziali, spesso senza tutele e protezioni giuste. In particolare, le più colpite sono le persone di origine Afro-Caraibica:
Non è un caso che spesso le minoranze etniche siano quelle che fanno parte delle classi sociali maggiormente vulnerabili, questo può derivare sia da un razzismo sistemico e strutturale che dalle leggi di uno Stato che non è lungimirante punta alla chiusura più che all’inclusione. Per quanto riguarda il primo caso è impossibile non pensare al caso degli Stati Uniti, dove il razzismo sistemico è evidente: gran parte delle persone afroamericane non solo sono essential workers, ma data la struttura socio-economica statunitense, senza misure per l’appianamento delle disuguaglianze sociali, spesso non ha l’assicurazione sanitaria per potersi pagare le cure. In più, come riporta Il Post in un articolo:
“Negli ospedali poi gli afroamericani subiscono altre discriminazioni: secondo un rapporto di Rubix Life Sciences, una società di analisi dati di Boston, per una persona con i sintomi da COVID-19 è più difficile avere accesso a un test — complicato da fare anche negli Stati Uniti — se afroamericana” .
e ancora:
“Anche al di fuori di Illinois, Michigan e North Carolina, ci sono segnali che gli afroamericani siano più colpiti dalla COVID-19 dei bianchi. Il giornale online ProPublica ha dedicato un’inchiesta a Milwaukee, in Wisconsin: è una delle città americane dove la comunità afroamericana vive più separata dal resto della popolazione, il reddito medio delle famiglie nere è la metà di quello delle famiglie bianche e l’aspettativa di vita dei neri è 14 anni minore di quella dei bianchi. Secondo dati aggiornati al 3 aprile, dei circa 1.000 contagiati da coronavirus della contea di Milwaukee, circa la metà erano afroamericani; dei 27 morti, l’81 per cento erano neri, nonostante gli afroamericani siano solo il 26 per cento del totale degli abitanti”.
Per quanto riguarda il secondo caso, invece, è necessario parlare dell’Italia. Ultimamente è tornato in voga il dibattito sui braccianti. Non per uno slancio di “umanità” ma perché utili. Vi è infatti solo un concetto utilitaristico per le donne e uomini migranti, specie ora che ci troviamo in una situazione di emergenza. E’ tornato il mantra del “ci servono”, ma anche del “vacci tu a raccogliere pomodori a 2€ l’ora”, senza spostare il dibattito su due problematiche fondamentali: mancate regolarizzazioni e sfruttamento. Sembra quasi che si sia aperto il vaso di pandora quando lo scorso anno, a Terracina, Alessandro Gargiulo, 35enne e titolare di un’azienda agricola sparava contro i suoi braccianti indiani per farli lavorare. Condizioni di disumanità che sono sempre esistite e per cui non c’è mai stato un cambiamento strutturale a livello di leggi. O ancora si pensi al caso di Soumaila Sacko, ragazzo di 29 anni, bracciante originario del Mali, e brutalmente ucciso a colpi di fucile mentre cercava, insieme ad altri due compagni, delle lamiere per costruire un riparo di fortuna nella tendopoli in cui era costretto a vivere.
Sacko era sempre in prima linea per difendere i diritti dei braccianti della tendopoli di San Ferdinando, in Calabria. E ci sono attivisti come Aboubakar Soumahoro o Yvan Sagnet che da anni stanno portando avanti la medesima battaglia. Nonostante le difficoltà e i cambiamenti strutturali inesistenti, Sagnet, è riuscito, grazie al movimento NoCap da lui fondato, associazione internazionale anti-caporalato, a creare una filiera agricola etica e per cui ogni prodotto è verificato dal bollino “NoCap”, nel rispetto dei e delle braccianti, dell’ambiente e degli animali.
Ma nonostante questo dato positivo, è lo stesso Sagnet che afferma che tutto ciò non è abbastanza e che sia necessaria una sanatoria per chi vive nel limbo dell’irregolarità — quindi anche nello sfruttamento e nel lavoro nero. In risposta alla Ministra Teresa Bellanova, Sagnet ha affermato:
“Abbiamo un settore che ha bisogno di manodopera in questo momento, mancano all’appello lavoratori rumeni e bulgari bloccati nei loro paesi per via del Coronavirus. Noi abbiamo 600mila migranti irregolari, di cui la metà lavora in nero, l’altra metà è disposta a lavorare quindi è una proposta di buonsenso quella di regolarizzarli tutti. E sarebbe anche un bene per lo Stato regolarizzare gli immigrati e il lavoro nei campi perché tutti pagherebbero le tasse. Bisogna mettere a disposizioni di questi lavoratori, poi, degli alloggi dignitosi. Gli alloggi ci sono, ad esempio quelli confiscati alle mafie”.
In aggiunta, ed è fondamentale, bisogna parlare di salari perché se il dibattito non si sposta da quel “2€ l’ora” è perché un salario simile — che non può nemmeno essere definito come tale — non dovrebbe nemmeno esistere. Si tratta di uno sfruttamento legalizzato, per questo la mera regolarizzazione non basta se non avviene un cambiamento radicale anche da questo punto di vista. Infatti, come afferma in un’intervista Marco Omizzolo, sociologo, ricercatore e autore del libro “Sotto padrone”:
“Grazie ai canali attivi con i braccianti sul territorio riesco a monitorare quotidianamente la situazione, anche in questo periodo. Ci sono diversi casi: alcune aziende sono in oggettiva difficoltà perché la catena commerciale, legata ai ristoranti e agli hotel, è in crisi essendo le attività chiuse. Quindi ci sono dei braccianti che restano a casa senza lavoro o lavorano molto poco, e hanno evidenti difficoltà economiche. In altri casi l’attività va avanti e la produzione resta alta come nel caso del mercato ortofrutticolo di Fondi, quindi il bracciante viene impiegato come prima attraverso un caporale e il livello di sfruttamento in alcune situazioni è ancora peggiore. Questo anche perché alcuni imprenditori sono consapevoli che i controlli sono solo sulle strade e legati al contrasto del coronavirus. Non ci sono più i controlli nelle aziende per caporalato e in molti se ne approfittano. Per esempio si fanno lavorare le persone più ore ma con una retribuzione più bassa: c’è stato un abbassamento della paga oraria a 3,50 l’ora, in alcuni casi. Inoltre visto che andiamo verso la bella stagione si lavora anche 11/12 ore al giorno, perché c’è più luce. Inoltre i braccianti sono obbligati ad acquistare privatamente mascherine e guanti, non sono informati su come lavorare nelle aziende. La raccolta si fa a gruppi e questo rende i lavoratori più esposti al contagio. In generale, dunque si registra un peggioramento della situazione. Il caporalato continua ad esserci, il reclutamente avviene anche via whatsapp.
Per quanto riguarda le donne, invece, anche queste ultime sono vittime della medesima sorte. Solo due anni fa, una donna nigeriana di 26 anni, Becky Moses, è morta a causa di un incendio scoppiato nel ghetto dei braccianti di San Ferdinando; altre due donne sono rimaste gravemente ferite. Riporta TerreLibere in un pezzo di due anni fa:
“Becky era a Riace fino a dicembre, poi è cessata l’accoglienza dopo il diniego alla richiesta d’asilo. Come facilmente prevedibile — per tutti ma non per la Commissione asilo — è finita nel ghetto di San Ferdinando-Rosarno.
Tuttavia il settore agricolo non è l’unico a essere costituito da persone che vivono nello sfruttamento e nell’insicurezza socio-economica, si pensi alle donne che lavorano in qualità di collaboratrici domestiche o assistenti per persone anziane. Come scrive Elizabeth Arquinigo Pardo, operatrice sociale e legale che si occupa di progetti di integrazione, spesso queste ultime rimangono senza tutele o senza un posto dove vivere se la persona anziana che assistono finisce in ospedale. Se subiscono un licenziamento e questa condizione si prolunga per più di un anno, rischiano anche di perdere il permesso di soggiorno.
In un articolo di Eleonora Camilli sul diritto alla cittadinanza ai tempi del Coronavirus, ci sono le voci di:
- Celia, 46enne del Perù che vive da dodici anni in Italia e lavora come colf. Ora però, a causa dell’emergenza, è stata licenziata da due delle cinque famiglie per cui lavorava, il che implica l’abbassamento del reddito -un elemento cruciale e che deve essere mantenuto per l’ottenimento della cittadinanza. Questo abbassamento potrebbe mettere a rischio le procedure.
- Jovana Kuzman, 23enne e studentessa di Scienze Politiche e che vive in Italia da quando aveva due anni. Non ha mai potuto inoltrare la domanda per la cittadinanza a causa del reddito troppo basso. Kuzman non lavora ma la madre sì, tuttavia quest’ultima è stata licenziata dall’albergo in cui lavorava a causa del Coronavirus.
Il caso si Kuzman non si sarebbe verificato se solo il governo, nel 2017, fosse stato meno codardo e avesse approvato la riforma di cittadinanza.
In aggiunta, il legame vincolante tra permesso di soggiorno e lavoro e che risulta essere molto limitante per i lavoratori e le lavoratrici di origine straniera, presenti o che vogliono entrare in Italia, risale alla legge Bossi-Fini. In un mio pezzo avevo scritto:
“A causa della Bossi-Fini, entrare in Italia regolarmente è impossibile se non si possiede un contratto di lavoro e ciò implica che chi non lo ha, non può entrare regolarmente per cercarlo in Italia. Si tratta di una legge che non guarda al futuro ma punta alla chiusura, impedendo di entrare in Italia con un regolare visto d’ingresso per cercare lavoro — il che eviterebbe di dover affrontare mare, deserti o, peggio, i campi di detenzione in Libia — o di soggiornarvi in quanto aventi diritto di protezione umanitaria. Le limitate possibilità di entrare legalmente in Italia previste dalla Bossi-Fini hanno poi subito una stretta tale con il Decreto Sicurezza che si potrebbe parlare ormai di una sua abolizione de facto”
In Italia bisognerebbe iniziare a parlare seriamente di liberalizzazione dei visti lavorativi o per motivi di studio; bisognerebbe evidenziare, per indurre un cambiamento, i problemi della burocrazia, spesso lenta e ingiusta in materia di pratiche per i documenti; bisognerebbe abolire la legge Bossi-Fini, che non solo è la prima causa di irregolarità, ma non permette a molti stranieri di inserirsi nel mondo del lavoro o di rinnovare il permesso di soggiorno. Infatti in un articolo di AltrEconomia del 2017 viene spiegato che:
“La Bossi-Fini è una norma manifesto, che non solo non ha governato i flussi migratori, ma ha preparato il terreno a una società sempre più caratterizzata dalla diffidenza e dalla rabbia discriminatoria -commenta l’avvocato Marco Paggi, socio dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi)-. La migrazione per motivi economici è un tema serio, che deve essere gestito in maniera adeguata. Negli ultimi 15 anni questo non è stato fatto”.
Ugualmente severo il giudizio di Paolo Bonetti, docente di diritto costituzionale all’Università degli Studi Milano Bicocca: “Sulla questione lavorativa, le responsabilità di questo testo sono notevoli perché fece la scelta, infelice, di lasciare tutto nelle mani dei soli datori di lavoro -spiega-. Inoltre, la Bossi-Fini era stata pensata per essere una legge estremamente severa, in realtà ha portato alla più grande sanatoria della storia della Repubblica”. Con l’entrata in vigore della “Bossi-Fini”, infatti, venne varato un primo e importante intervento di regolarizzazione degli stranieri presenti sul territorio (247mila i lavoratori stranieri “sanati” i tra il settembre 2002 e il dicembre 2003 secondo l’Istat) seguito da altri due interventi analoghi nel 2009 (poco meno di 300mila richieste presentate) e nel 2012 (poco più di 100mila richieste presentate).
Per Maurizio Bove il primo e più grave errore della “Bossi-Fini”, è stata l’abolizione del cosiddetto “sponsor” che permetteva al migrante di entrare legalmente in Italia con un visto per cercare lavoro grazie alle garanzie economiche offerte da un familiare, da un conoscente o altro garante. Uno strumento che venne sperimentato per tre anni (dal 1999 al 2001) e diede buoni risultati. “I migranti in cerca di lavoro si sostenevano senza gravare sulla collettività grazie al supporto di familiari o amici. E pagavano di tasca propria le spese del viaggio senza doversi affidare ai trafficanti –ricorda l’avvocato Marco Paggi-. Tuttavia si scelse di eliminarlo per motivi puramente ideologici”.
La sanatoria è sicuramente un buon puto di partenza — e l’iniziativa dell’associazione MeltingPot è più che giusta — tuttavia non si può nemmeno pensare di andare avanti a sanatorie. Dopo 30 anni di sanatorie non è mai cambiato nulla, in questo paese, a livello strutturale.
“Oltre che regolarizzare gli immigrati si tratta di quindi di regolarizzare l’immigrazione. L’occasione per chiudere la stagione della precarietà e della corsa al ribasso dei diritti di chi lavora è arrivata, ma va colta immediatamente e in modo non strumentale” — Michele Colucci, Internazionale.
Uomini e donne immigrati delle classi sociali più vulnerabili sono sempre rimasti invisibili.Oggi, tra la classe dirigente, ci saranno quelli che ringrazieranno i lavoratori nell’ipocrisia del fatto che uomini e donne immigrati rimangono sfruttati, senza documenti perché per decenni non sono mai state cambiate le leggi.
Che si tengano pure gli sporchi ringraziamenti.