Perché è difficile *spiegare* il razzismo
Quando cerchi di dire che una cosa è razzista, è la persona con cui parli che si offende e ti dice che non devi offenderti tu, che subisci.
In qualche modo è più sensibile la persona a cui lo spieghi, di te che subisci tutti i giorni. E non c’è cosa più snervante. Dire “razzista”, specie se fai parte di una minoranza, è un taboo. Non appena cerchi di spiegare che qualcosa può essere altamente problematico e che richiede un approfondimento, crolla il muro di certezze di chi fino a ora pensava che bastasse non votare Lega o partiti simili per rientrare tra gli immacolati antirazzisti.
Però devi accettare che venga utilizzata la tua pelle come baluardo di discorsi politici — in cui non sei protagonista, o meglio lo sei ma senza la tua voce. La tua pelle è utile quando nei talk show si parla di immigrati, sbarchi, cittadinanza. E’ utile in quel preciso istante in cui serve per ripulirsi la coscienza per qualche voto in più, che se ne parli negativamente o positivamente. Poi nessuno ne parla più, fino alla prossima aggressione fisica o verbale o al prossimo sbarco sui porti.
La parte difficile non sta tanto nello smontare- ci vuole davvero poco — la propaganda di chi parla di sostituzioni etniche, aggrappato ancora al razzismo scientifico che vede i neri come esseri inferiori. Quelle teorie sono già state smontate e chi continua a perpetuarle oggi è sicuramente un problema, ma facilmente smontabile. Leggendo queste mie parole forse qualcuno dirà “Come puoi dire questo?”. La risposta è che la parte più complessa da risolvere è quella socio-culturale che è stata assorbita più o meno da tutti e tutte, per moltissimi anni. L’Italia è quel Paese in cui si fanno articoli sul “primo avvocato nero”: di certo fa piacere sapere che la realtà, sotto diversi punti di vista stia cambiando, ma forse bisogna riflettere sul perché sorprenda tanto. L’Italia è quel Paese che ha utilizzato la pelle di un corazziere nero del Quirinale come baluardo antirazzista contro Salvini — quando nella Lega esiste Toni Iwobi, e qui l’utilizzo della pelle come mezzo per andare contro i partiti fallisce miseramente, in quanto sono le idee e le proposte che fai che battono un altro partito, non l’aspetto fisico.
Ora, di certo è innegabile che l’utilizzo che determinati partiti fanno della propaganda sui porti chiusi e sugli immigrati sia chiaramente razzista. Ma la tecnica di usare il colore della pelle è fallimentare in quanto, tornando al caso di Toni Iwobi, anche i suoi collaboratori potrebbero dire “non siamo razzisti, abbiamo un Senatore nero”. Il che è speculare a “siamo antirazzisti, abbiamo il corazziere nero”.
Capite che il dibattito sul razzismo in Italia—e in questo caso parlo di una realtà che mi riguarda in prima persona in quanto afrodiscendente, con pelle nera — è infantile e fermo a un “abbiamo l’amico/il/la collega/il/la collaboratore-trice domestico-a/il/la poliziotto/a /l’infermiere/a NERO/A”.
Il corpo nero è *di* qualcuno che lo utilizza come scudo per non riflettere sulla società in cui vive e in cui ci sono diversi livelli di discriminazione, contesti o metodi comunicativi problematici o razzisti che possono colpire le minoranze in questione in modo diverso.
Ad esempio, senza nulla togliere a Carola Rackete che ha fatto qualcosa che non dovrebbe mai essere impedito, ossia il soccorso in mare. Quando ho visto quest’immagine non mi sono sentita così soddisfatta e felice:
E il problema non è di certo Rackete in sé, quanto il modo di rappresentare sia lei che i corpi neri aggrappati ai suoi capelli. Lei giunonica, i corpi neri piccoli, aggrappati a quella che sembra quasi una dea (bianca). In un articolo su The Vision avevo spiegato cos’è il white saviour complex:
[…]l’Africa è ancora vittima di un bombardamento di spot pubblicitari che sbattono bambini malnutriti e tristi sullo schermo, favorendo una narrazione a senso unico che la descrive come incapace di risollevarsi da sola e in perenne attesa di aiuto, in particolare occidentale. Non c’è nulla di male nel volontariato ed è ovvio che ci siano organizzazioni che si occupano di portare aiuto nelle zone di instabilità o di estrema povertà. Tuttavia non sono rare le volte in cui il volontariato diventa volonturismo, un volontariato di facciata che serve solo per autocompiacersi con la foto di qualche bambino preso in braccio da pubblicare sui propri social network. La tendenza a mostrarsi come salvatori degli africani bisognosi, al posto di fornire informazioni sul contesto in cui si opera è anche noto come white saviour complex, il complesso del salvatore bianco[…].
Questa rappresentazione mi ricorda anche un altro caso simile: questa volta si tratta di un set fotografico effettuato in un villaggio povero, in una zona del Cameroon. (Immaginate: recarsi volontariamente nelle aree più povere per scattare fotografie simili, in cui la protagonista è la donna angelo europea, salvatrice dei “poveri africani”).
Fortunatamente, questo set fotografico è stato molto criticato e, di certo, non è mia intenzione paragonare Carola Rackete a questa modella: quello che vorrei sottolineare però è il modo di rappresentare i soggetti della vicenda. La narrazione che viene perpetuata dei corpi neri, sia nella narrativa “antirazzista” che in quella tipicamente razzista. Ma se mi concentro su quella “antirazzista” è perché in tutti questi anni ho notato che vi sono più difficoltà in questa che nell’altra. E il problema sta proprio nel non riuscire a vedere queste immagini come disumanizzanti e altamente problematiche.
Queste lenti che il “perfetto antirazzista” o l’antirazzista wannabe indossa e continua a non togliere sono un problema per la lotta antirazzista che si cerca di portare avanti. Una lotta che non si conclude con un “siamo tutti uguali”, prendendosi per mano e cantando Girotondo. Fosse così facile! Il razzismo è fatto di sfumature, livelli differenti di discriminazione; il razzismo può essere interiorizzato, può mutare nel corso del tempo; il razzismo può essere benevolo — come quelle persone che ti chiamano negretta, “ma in modo affettuoso. E guai a te se te la prendi, altrimenti mi offendo io, che so di essere antirazzista”.
La verità è che per quanto si cerchi di concludere il discorso sul razzismo con un banalissimo “siamo tutti uguali” — seppur vero in quanto siamo tutti esseri umani— la categorizzazione e la razzializzazione che per secoli la supremazia bianca ha effettuato, categorizzando gli esseri umani in “razze diverse”, questa tanto millantata uguaglianza viene meno. E viene meno nel momento in cui ci si accorge che si viene trattati, visti o percepiti in modo completamente diverso rispetto alla maggioranza. Siamo tutti esseri umani, ed è vero che scientificamente le razze non esistono. Tuttavia i tratti somatici e tutte queste diverse caratteristiche superficiali servono per spiegare determinate dinamiche del rapporto che la persona razzializzata ha con gli altri e la società.
Ecco perché, ad esempio, la domanda “ma perché dici di parlare in quanto ‘donna nera’ e non semplicemente ‘in quanto donna?’ risulta essere irritante, in quanto si continua a non capire che l’essere donna E nera, non è uguale all’essere donna E bianca. Siamo accomunate dal fattore “donna”, ma poi su di me possono agire altri fattori che non si presentano se si è bianchi in una società a maggioranza bianca. Il punto sta nel togliersi le lenti sopracitate e cercare di capire il punto di vista di chi vede il mondo circostante in maniera differente.
Parlare di razzismo è difficile perché non solo non vi sono le basi per un approfondimento— e noi afrodiscendenti italiani stiamo iniziando a farlo presente adesso — ma spesso ti ritrovi un muro di persone convinte di non avere atteggiamenti problematici e che puntualmente si sentono offese se provi a spiegare la tua visione in quanto persona nera. I corpi delle persone nere sono monopolio di qualcun altro, che si tratti di pregiudizi e stereotipi come “i neri stuprano più dei bianchi, è la loro cultura” o “guarda che ho fatto volontariato una volta, so tutto di razzismo”/”Hey guarda questa mia foto dove tengo in braccio questo bambino di quando sono stato in Zimbabwe”.
Quindi se esprimi il tuo punto di vista in quanto persona nera su qualcosa che ti riguarda come il razzismo e l’universo che ci gira intorno, molto probabilmente ti esporrà a una miriade di: “non è vero”, “esageri”, “non è così” (persone non nere, ovviamente).
Spiegare il razzismo — che non nasce e muore con un “n* di merda” o un’aggressione fisica, quelli non sono altro che l’apice — è snervante, è difficile. Inoltre ti ritrovi anche casi in cui parlano di razzismo persone che il razzismo sulla propria pelle non lo subiscono. Spesso nascono dibattiti senza i soggetti di cui si sta parlando: come il direttore della Gazzetta dello Sport, Andrea Monti, che a seguito degli insulti razzisti rivolti a Mario Balotelli durante la partita Hellas Verona — Brescia del 4 novembre 2019, ha scritto un editoriale dal titolo Razzismo oltre lo sport, è una questione nazionale. Voi usereste la parola ‘negro’?
Ma chi sono i lettori che ricevono questa domanda? Dobbiamo presupporre che si tratti di persone prevalentemente bianche (dato che le persone nere, in Italia, sono una minoranza). La questione della n word è una questione che va necessariamente — e direi anche esclusivamente — risolta solo con gli afrodiscendenti. E’ impensabile aprire un dibattito su un aspetto così delicato, profondamente ricco di significati (perlopiù negativi, se non totalmente) per poi gettarlo in pasto a chi, molto probabilmente dirà “Perché no? Posso dire quello che voglio”, “Perché no? Il mio amico nero me la fa dire e non si offende”.
E poi ci sono io, che rispondo di no, che non la puoi utilizzare, che non mi ci puoi chiamare. Ma improvvisamente il dibattito non si focalizza su di me e del perché io mi senta così e provi disprezzo per una parola simile, ma sul soggetto che si sente offeso, oppresso, triste nell’animo, per il mio divieto di non garantirgli la libertà di potermi chiamare come desidera. Di nuovo, sono più importanti i sentimenti dell’interlocutore a cui spieghi il razzismo, dei tuoi che lo subisci. A volte ti ammutolisci per evitare di non ricevere dei “sei esagerata”.
C’è una scrittrice afrobritannica, Reni Eddo-Lodge, che ha scritto un libro dal titolo Why I’m No Longer Talking to White People About Race (Perché non parlo più di questioni di razza con le persone bianche). Lo devo ancora comprare, ma ho letto qualche estratto online e penso che se tutte le persone lo comprassero, probabilmente ci sarebbero meno problemi da questo punto di vista. Perché certe volte ti stanchi e non hai la minima voglia di spiegare perché e come una certa cosa ti colpisca in un determinato modo. D’altra parte, almeno per quanto mi riguarda, senti di doverlo fare perché sai che così non va bene, e che qualcosa dovrà pur cambiare, prima o poi.
La base è l’ascolto, sempre. Se non ci sei dentro — con la pelle— non ti puoi permettere di pontificare su cosa sia offensivo per una minoranza o meno e il tuo “amico nero che ti fa dire/fare cose” NON è un esempio applicabile a tutte le donne e uomini nere e neri che incontri.
Anzi, forse il problema è la mancata decostruzione e autoanalisi del tuo “black friend” e l’ignoranza di entrambi.