LA MIA PELLE E’ UN FETISH
La feticizzazione del corpo nero femminile è il risultato di un retaggio coloniale che si è avuto sia in America che in Europa. Per quanto riguarda il primo caso, e in particolare negli Stati Uniti, le donne nere che venivano schiavizzate e sfruttate nei campi da lavoro dai padroni bianchi, venivano ripetutamente stuprate e utilizzate come schiave del sesso. E se questi ultimi venivano sorpresi dalle loro mogli bianche, la colpa ricadeva sulla donna nera stuprata, poiché li aveva “sedotti”. Da parte delle loro mogli vi era questa “paura” che i loro uomini le potessero tradire per colpa delle donne nere, senza capire che il problema era il potere machista e razzista dei loro mariti. E questi ultimi si approfittavano di questa “paura” per uscirne completamente puliti. A questa idea di inferiorità razziale che veniva attribuita ai neri, si aggiungeva anche questo ruolo imposto di oggetto sessuale per le donne nere, utili solo per sfogare le violenze e le frustrazioni sessuali dei loro padroni. Anche gli uomini neri venivano estremamente sessualizzati: venivano visti come animali feroci che da un momento all’altro avrebbero stuprato le mogli bianche dei padroni. Ma lo stupro era una prerogativa e un diritto solo dei padroni bianchi: le loro mogli bianche non potevano né dovevano essere toccate, mentre le donne nere sì.
La storia di Sarah Baartman, conosciuta anche come Sarah Saartjie è un altro esempio di completa disumanizzazione della donna nera. Baartman era una donna di origine sudafricana che nell’800 venne esibita come fenomeno da baraccone nei più famosi Freak Show d’Europa. La sua caratteristica era quella di avere un fondoschiena di grandi dimensioni, fuori dalla norma, e dato che, all’epoca, ciò veniva visto come qualcosa di straordinario e affascinante da osservare —ma anche da possedere — il suo padrone decise di guadagnarci sopra con diversi spettacoli. Chi assisteva a questi spettacoli, chiedeva perfino di poter abusare di lei in “spettacoli privati”.
Oggi, il problema legato alle grandi e anormali dimensioni del fondoschiena di Baartman, verrebbe definito come steatopigia, ossia un problema legato alla lordosi lombare, quindi di grasso che si accumula principalmente nella zona inferiore del corpo. Ma è chiaro che allora non se ne conosceva la causa, e Baartman veniva denigrata in questi spettacoli disumani. Il macabro spettacolo durò anche dopo la sua morte, dato che il suo corpo venne sezionato: parti del suo cervello, il suo scheletro e i suoi genitali vennero tenuti come oggetti da esposizione nel Museo dell’Uomo, a Parigi. Era l’epoca della nascita del così chiamato razzismo scientifico. I suoi resti rimasero in esposizione fino al 1974 per poi essere mandati in Sud Africa, per volere di Nelson Mandela, dove verranno seppelliti ad Hankey solo nel 2002.
Quando si parla di razzismo e colonialismo, si fa quasi sempre riferimento a Paesi quali gli Stati Uniti, l’Inghilterra o la Francia, eppure anche l’Italia ha avuto un passato coloniale. Si tratta di un passato con cui gli italiani non hanno mai fatto i conti; se ne parla nei libri di scuola ma in modo molto superficiale, non vi è alcun approfondimento. Ebbene, la disumanizzazione della donna nera è avvenuta anche in questo caso e chi ha partecipato in prima persona in questa campagna coloniale del ventennio fascista, ad oggi, non viene considerato come personaggio problematico. Indro Montanelli, giornalista, nel 1936 su “Civiltà Fascista”, un quotidiano mensile del ventennio, scrisse “Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve”. Allo stesso tempo, però, ha goduto dei privilegi del così chiamato madamato, ossia una relazione che si instaurava tra i colonizzatori italiani e le donne native dei territori conquistati.
Nei fatti, però, non si trattava di una “relazione” ma di un rapporto fortemente basato sulla superiorità del colonizzatore, che utilizzava la donna come schiava e oggetto sessuale, e l’inferiorità di quest’ultima. Montanelli possedeva una schiava di circa dodici anni, la descriveva come un “animaletto docile” e giustificava tutto ciò dicendo che “lì” (in Africa) le bambine “erano già donne”. La bambina nera, quindi, non veniva vista come tale, ma come una persona adulta, pronta a soddisfare i desideri dei colonizzatori. Eppure, come fece notare Elvira Banotti, giornalista e scrittrice, durante un’intervista in diretta TV a Montanelli, egli non si fece scrupoli ad adottare un comportamento che in Italia non avrebbe mai adottato nei confronti di bambine dodicenni bianche. Si trattava di abuso di minore a tutti gli effetti, ma i colonizzatori vedevano quelle terre conquistate come valvola di sfogo per fare tutto ciò che era proibito dalla legge nel loro Paese. Non si parlava di abuso di minore ma di mogli legalmente comprate e tutto era lecito.
Quella frase di Montanelli, “lì in Africa sono già donne” mi fa ripensare a quelle volte in cui subii le prime molestie — schiamazzi, fischi, e “complimenti” non richiesti — da parte di uomini bianchi e adulti quando avevo dodici o tredici anni. La sessualizzazione del corpo femminile può avvenire in molti casi già in tenera età: non appena si entra nella pubertà — e il seno diventa più prosperoso, le forme del corpo si definiscono di più — agli occhi di molti sei già una donna cresciuta. Nella mia esperienza, e secondo le esperienze che mi hanno raccontato altre donne nere, questo tipo di molestie precoci si incentrava proprio sul colore della pelle.
La pelle nera viene percepita come qualcosa di esotico e da conquistare. Nella maggior parte dei casi, gli approcci che vengono utilizzati non sono uguali a quelli usati per le donne bianche. Non che queste ultime non subiscano approcci o molestie davvero sgradevoli, di fatto, ciò che accomuna tutte le donne è proprio l’essere oggetto di attenzioni non richieste da parte di gente sconosciuta. Ciò che voglio dire però è che fare leva sul colore della pelle, in questo approccio, è il punto di partenza e il punto in cui poi gira tutto ciò che questi uomini percepiscono come “corteggiamento”. Inoltre, non sei una persona ma sei solitamente una “pantera”, un animale esotico. O una “gatta nera”, come quella del Mercante in Fiera.
Vieni percepita quasi sempre come maliziosa, costantemente vogliosa, aggressiva e sicuramente sai twerkare. Mi è stato chiesto varie volte se preferissi i cazzi bianchi o quelli neri, si dava quindi per scontato che io avessi avuto chissà quanti rapporti sessuali — sicuramente anche con ragazzi neri — e dovevo fare questo paragone per compiacere l’ego maschile. Non mancano poi le attenzioni moleste di chi, se sei sola e ti fai gli affari tuoi in pieno centro, ti percepisce come una prostituta, tra un “sali in macchina” o un “quanto prendi?”.
Penso che il porno abbia giocato un ruolo fondamentale nella categorizzazione delle donne, viste come oggetti da inserire in determinati scompartimenti: le redhead, le milf, le latinas, e poi le ebony. Io farei parte di quest’ultima categoria e non è un caso che, nei vari tentativi di approccio, dire “io adoro le ebony” per attirare la mia attenzione, sia una delle frasi principali. Non ci si presenta, non si saluta, il punto non sei tu, ma la pelle che ricopre il tuo corpo. Il punto non è chi sei, come ti chiami o quali siano i tuoi interessi, il punto confermare gli stereotipi che tal persona ha sentito dire sulle ebony. Noi donne nere siamo più “facili” e ci facciamo meno problemi. Così ha detto un “maestro” della Play Lover Academy, una pagina facebook in cui si danno consigli agli uomini su come conquistare le donne. Secondo lui le donne italiane se la tirano troppo, mentre quelle “di colore” (di che colore?) no. A parte la suddivisione tra “donne nere “ e “donne italiane” — come se donne nere italiane non esistessero — si è voluto arrogare il diritto di spiegare come conquistare una donna nera, come se fosse una categoria a sé, che richiede atteggiamenti differenti.
Un altro tentativo di approccio utilizzato è dire subito, come premessa, di non essere mai stati con donne nere o di non “averne mai provata una”, come se fossimo delle macchine da provare, un piatto da gustare. Ancora non capisco perché una frase simile, “il non essere mai stato con donne nere” sia importante: la prima cosa che mi viene in mente quando un ragazzo mi dice una frase simile è “quindi?”. Spesso rimango spiazzata, sono sempre indecisa tra sottolineare l’evidente approccio sbagliato e i problemi di comunicazione o chiudere la conversazione sul momento. Per quanto riguarda la seconda frase, vi è un’evidente feticizzazione a sfondo razziale per cui provo semplicemente disgusto. Infine, c’è il “sei bella, per essere nera” che sancisce la condanna a morte dell’intera conversazione.
A volte penso che agli occhi degli uomini che tentano un approccio, siamo delle creature aliene, fuori da questo mondo. C’è chi fa salti mortali, cercando di scrivere o di dire frasi imbarazzanti e pseudo-poetiche sulla pelle color ebano; oppure siamo tutte Naomi Campbell o Beyoncé. Siamo tutte uguali, non c’è differenza. E qualcuno dirà “E allora? Che c’è di male? Campbell è effettivamente bella”. Il problema nasce dal fatto che quest’associazione è più dovuta a una feticizzazione della donna nera in quanto tale. Non so a quante donne bianche capiti di essere apostrofate ogni volta con “Ue’ Michelle Hunziker” o “Hey Monica Bellucci”.
Credo che pensare che tutte le donne bianche siano ovviamente diverse l’una dall’altra sia più semplice, mentre se si tratta di una categoria ben precisa, una minoranza etnica in una società prevalentemente bianca, si tende a generalizzare. Quindi una donna nera vale l’altra ma soprattutto, tutte siamo abbordabili, tutte siamo siamo “facili” — non che ci sia nulla di male ad andare a letto con qualcuno al primo appuntamento, ma darlo per scontato solo perché si parla di donne nere non ha senso. Questi tipi di approcci mi fanno venire in mente il film Bianco e Nero, un film diretto da Cristina Comencini. In questo film, Alfonso, il suocero di uno dei protagonisti, per tentare un approccio con Nadine, di origine senegalese, se ne esce con frasi del tipo “in fatto di sesso, hanno una marcia in più”, oppure, come in questi brevi videoclip che ho estratto dal film, si finge esperto d’Africa.
In quanto femminista intersezionale, parlo spesso di tematiche che riguardano le donne nere. Ciò che a volte ricevo come risposta, però, è che tutte le donne devono sopportare più o meno gli stessi stereotipi. Tuttavia, dire che “tutte le donne sono uguali” di fronte a questo tipo di problemi, sminuisce il tipo di approccio che ogni donna, ognuna diversa dall’altra, ha con la società e le persone che ne fanno parte. E’ importante condividere le proprie esperienze: una donna musulmana e che, ad esempio, indossa l’hijab può subire un tipo di feticizzazione e discriminazione diversa rispetto a una donna atea e che non lo indossa. Una donna lesbica può subire un altro tipo di feticizzazione e discriminazione, rispetto a una donna etero. Noi donne siamo accomunate dal fatto di essere vittime di discriminazioni sessiste e di dover combattere ancora oggi, in tutto il mondo, contro il patriarcato e i ruoli e stereotipi sociali e di genere. Tuttavia, è importante sottolineare le differenze dei vari livelli di discriminazione, per provare a capirsi e trovare una soluzione. Non è un gioco a chi se la passa peggio.
Ciò che mi sento dire spesso è che sono esagerata, o che parlare di queste problematiche mi rende “acida” o “antipatica”. Una volta, un ragazzo mi ha detto: “tanto vale che rimani sola”. Eppure, non mi sembra così complicato cercare di riconoscere un problema, capire da dove derivi e rifletterci sopra. Non mi sembra così complicato neanche presentarsi, chiedermi come mi chiamo, scoprire quali siano i miei interessi, anziché dover leggere messaggi o ascoltare persone che si fingono “esperte d’Africa” o “amanti delle nere” .
Il fatto che io sia una donna nera è già evidente, ripeterlo all’infinito per avere la mia attenzione non porta a nulla se non a una feticizzazione del mio corpo, ed è davvero disumanizzante. Qualcuno di voi dirà “gli uomini non sono tutti così”, ed è ovvio, io stessa non penso che ogni uomo bianco di questa penisola si comporti in questo modo. Ciò che voglio dire però è che l’idea generale che si ha della donna nera in Italia è fortemente ancorata a molteplici stereotipi.
La mia pelle è stata discriminata, feticizzata, sessualizzata, bombardata di pregiudizi, tuttavia rimane l’involucro con cui mi presento e questo non cambierà. L’unica cosa che può, e deve, cambiare è la percezione che ne hanno gli altri. Anche perché, sarà scontato, ma la mia personalità non nasce o finisce lì.